Sempre nell'attesa della sintesi fotografica del viaggio in Laos, ho il piacere di ospitare un racconto di un mio carissimo amico, Eppe Zampieri, che si diletta a scrivere brevi racconti.
A presto
ETOSHA
Ogni sera, al tramonto, lo
stesso rito.
Esce e si accoda agli altri:
tante falene in cerca della notte.
Arrivato alla pozza, sistema i
suoi attrezzi, nel tentativo di trovare in quegli scatti qualcosa di più.
E’ una sfida che si rinnova ad
ogni viaggio, e ogni volta lo vede perdente.
Quei click rimangono sempre e
solo figure di luoghi, persone, animali, a volte suggestive, ma immagini.
Quei brividi che gli stingono le
budella, che gli si piantano nello stomaco non li trova più.
Le ombre, calano rapidamente.
Le sequenze degli animali che
si abbeverano alla pozza si ripetono con la precisione fissata da secoli di
sete.
Una gerarchia scritta nelle
spirali del dna.
Prima le gazzelle e le zebre, che si avvicinano con
circospezione come faceva da bambino quando con gli amici andava rubare ciliegie
nel campo de vicino. Nervoso, tendendo le orecchie ad ogni fruscio che poteva indicare l’arrivo del contadino con il
bastone in mano.
Poi le giraffe, barche
beccheggianti in un mare ondoso. Con le teste che spuntano dalle fronde di
acacia e con le zampe anteriori piegate come un compasso per raggiungere
l’acqua, con la bocca in cima ad un collo senza fine.
Un barrito simile un suono di
corno e arrivano gli elefanti mentre le giraffe abbandonano il campo con timore
ma anche con una evidente sensazione di ingiustizia.
Hanno un incedere regale.
Sventolano le loro grandi orecchie come vessilli, senza curarsi minimamente di
chi e cosa abbattono nel loro cammino.
E poi la notte.
Tutto sembra fermarsi; c’è
solo qualche sciacallo che si muove a zig zag come l’ultimo avventore di un
bar.
Quella sera, senza essersi
annunciato, arriva lui: un samurai.
Veste la corazza della
battaglia e sul muso i due corni aguzzi, balenano come le spade sguainate del
guerriero.
L’occhio che spunta, piccolo,
dall’elmo sembra di vetro, senza alcuna espressione.
Non si cura di guardare in
giro: chi può avere la stupida idea di dare noia ad un rinoceronte?
Avanza senza alcuna fretta.
Compiendo un passo dopo l’altro.
I tempi sono dilatati come in
una rappresentazione del teatro giapponese.
Non esprime né paura né
titubanza, interpreta un copione che conosce alla perfezione per averlo
recitato da sempre.
Per percorrere i dieci metri
che dividono la boscaglia da quel liquido color caffelatte ci mette una vita.
Lui lo osserva dal mirino
retinato della sua reflex e preme senza sosta il pulsante di scatto; d’un
tratto realizza che tutto è troppo fermo.
L’animale non muove un
muscolo.
Scosta l’occhio dalla camera
e, nell’oscurità, dall’altra parte dello stagno, vede muoversi qualcosa.
Lentamente sta entrando in
scena un secondo attore: un altro rinoceronte.
Il tempo è sospeso.
I due paiono vivere in due
mondi diversi tanto uguali ma tanto distanti come materia e antimateria.
E’ evidente che nessuno dei
due vuole dividere l’acqua con l’altro.
L’avanzata è fatta di passi appena
accennati ma diretti come un raggio laser, anche se l’incontro sembra essere
programmato per un’altra era.
La macchina fotografica rimane
silenziosa.
E’ la prima volta da quando è
arrivato in Namibia.
La sua prima Africa.
Lo aveva stregato con i suoi
paesaggi che materializzavano le illustrazioni dell’atlante in cui aveva, mille
volte, scorrazzato da bambino vivendo avventure entusiasmanti.
Le città fantasma dei cercatori
di diamanti avvolte in un mare di sabbia che davano l’impressione di un vuoto angoscioso
dopo un rastrellamento.
Le coste, in cui una nebbia
setosa faceva intravedere lugubri scheletri di navi che non avrebbero più preso
il mare.
Le savane, in cui immancabili springbok
balzavano a quattro zampe come stantuffi di un treno.
Le cordigliere di dune che si
tingevano di tutti i colori dell’oro
Una cartolina che, osservata
con attenzione, metteva in risalto l’assurdo numero di persone contagiate dal
virus dell’HIV, il luccichio di lamiera delle bidonville di Windhoek, la
mancanza di nativi di pelle nera alla guida di qualsiasi attività.
Una nazione subequatoriale in
cui si festeggia l’October Fest e, in pieno deserto, si trovano pasticcerie che
offrono strudel che sembrano usciti da un forno viennese.
Aveva perso la concezione del
tempo.
Un sibilo ruvido come una lima
e una nuvola di polvere lo fanno tornare alla realtà.
In un attimo realizza che i
due lottatori sono vicino fino a sfiorarsi.
Tutto è accaduto in un lampo.
Sospesi nell’aria sono rimasti
solo alcuni granelli di polvere.
La tensione ha coinvolto
tutti, nessuno emette un fiato.
Tutti sono convinti che l’uragano
possa scoppiare da un momento all’altro.
Altri interminabili minuti,
forse decine di minuti, nella più completa immobilità: due sfingi.
Poi senza nessun preavviso uno
dei due contendenti, come fosse scattata una invisibile molla, gira su se
stesso e, col fare di chi si ricorda di avere un appuntamento a cui non può
mancare, riguadagna la boscaglia.
Dopo un po’ l’altro, come un
giocatore di poker che non tradisce alcuna emozione, senza bere, decide che è
tempo di andare a dormire.
La macchina fotografica è
ferma ai primi scatti della contesa.
Svita gli obiettivi, toglie il
cavalletto, mette tutto nella sacca e torna, senza rimpianti, a riposare.